Così come i bambini credono ingenuamente che alcune mucche siano viola e che la frutta e la verdura nascano direttamente nel banco del super mercato, molti adulti, meno ingenuamente, si comportano come se gli ottimi prosciutti e tutte le parti di carne del maiale fossero poste di notte nel reparto frigo da solerti Elfi delle favole, fingendo di ignorare le azioni connesse alla macellazione.
Quando si solleva questo argomento, le alzate di scudi non si contano e sembra che il mondo, per la maggior parte, sia abitato da vegetariani o, addirittura, solamente da vegani. Ma la tentazione è sempre dietro l’angolo e una saporita salsiccia nel piatto o una deliziosa fetta di prosciutto di San Daniele possono essere irresistibili, nonostante la pena per i poveri animali macellati. Rimozione che difende la nostra “cultura” collettiva, che non vuole guardare in faccia la realtà. Restiamo comunque invariabilmente degli animali soprattutto carnivori.
La tradizione contadina
La società contadina, da sempre, conserva gelosamente le sue tradizioni e i suoi riti e ogni stagione è caratterizzata da queste celebrazioni, in un intreccio di sacro e profano.
I contadini sono molto devoti ai santi, che già dai tempi antichi si dividevano in “santi della Chiesa”, dei quali avevano molta soggezione e altri, invece, che li inducevano a una certa confidenza, nonostante l’aureola.
Ed è proprio a questi ultimi che si chiedeva protezione e ci si affidava loro con una certa familiarità, perché venivano considerati più attenti e più vicini alla dura vita quotidiana dei contadini, alle loro sofferenze tanto che, qualche volta, le scadenze delle attività agricole erano scandite dalla ricorrenza del Santo sul calendario.
Esempi importanti sono san Martino, san Giovanni e sant’Antonio Abate, con il maiale al fianco, festeggiato il 17 gennaio, la cui immagine spiccava nelle stalle a protezione di tutto il bestiame.
Era raffigurato come un vecchio dai capelli e dalla barba bianca, con un bastone con un campanello in cima e accompagnato appunto da un maiale, che rappresentava, forse, il demonio che lo tentava continuamente nel deserto, dove viveva in ritiro il suo romitaggio.
Il maiale del santo, nel medioevo, era una risorsa fondamentale per l’ordine degli Ospedalieri, che si occupavano dei malati: era utilizzato non solo per fornire loro una alimentazione più ricca di proteine, ma addirittura per ricavarne unguenti per la pelle piagata dalle epidemie tanto che, nelle strade, girava indisturbato ed era considerato un gravissimo peccato rubarlo: il Santo in persona avrebbe decretato punizioni terribili!
E proprio a sant’Antonio è legata la macellazione del maiale, che doveva avvenire con i primi freddi, per conservarne ogni parte commestibile, affidandola al gelo e al ghiaccio dell’inverno.
Per le implicazioni sociali ed economiche, questa tradizione contadina resta uno dei punti fermi, il più rilevante e di grande valenza simbolica, perché è una festa dove si legano indissolubilmente la vita e la morte e, dove il sacrificio del maiale, salvava dagli stenti, dalla fame e dalla miseria più nera, intere famiglie e aiutava tutta la comunità a “scavallare” l’inverno così avaro, in quel periodo dell’anno, dei frutti della natura.
Per raccontare le fasi di questo rito così importante e, allo stesso tempo così, cruento, ho chiesto all’amico Alberto Ghetti di tornare indietro nel tempo e di condividere con noi i suoi ricordi. Esperienze di vita ignote ai giovani d’oggi e anche a tanti abitanti di città di allora.
All’epoca, si parla degli anni intorno al 1950, Alberto aveva cinque anni.
Prologo
“Qualche settimana fa, ho rivisto un vecchio film che per me, rimane uno dei migliori del secolo scorso, mi riferisco al capolavoro di Ermanno Olmi “L’albero degli zoccoli”. Il film non si può raccontare, bisogna solo farselo narrare dalla poesia delicata e piana di Olmi, viverlo, magari riuscendo a frenare e respingere quel magone che ti attanaglia lo stomaco e che nel mio caso mi ha commosso oltre un limite naturale… la vecchiaia scopre le sue fragilità.
In una delle quattro storie di quelle quattro famiglie alla fine dell’800, mi sono un po’ riconosciuto nel bimbetto di sei anni e ho rivissuto la figura del nonno, nella loro vita semplice, fatta delle necessità quotidiane, nello scorrere lento dell’esistenza di quelle campagne immerse nel freddo e le brume invernali.
Là, nelle campagne della bergamasca, le stagioni erano il vero orologio della vita. Poco più di cinquanta anni dopo, nella campagna romagnola, si ripetevano gli stessi riti, con persone simili e situazioni identiche. Così, in un inverno intorno al ’50 arrivò il giorno di un “rito di passaggio” … l’uccisione del maiale.
Un giorno di festa, un giorno atteso, un coacervo di sentimenti contrastanti. Di solito, in quei frangenti, c’è sempre un cane che gira per il cortile, noi non avevamo il cane, c’ero io che ero peggio, stavo in mezzo ai piedi di tutti… “sta lontano, via di qui, fat in la tabac… (spostati bambino)”.
La tradizione e il sacrificio
“Ora, i deboli di stomaco (che vedono quotidianamente le stesse scene sugli umani nei film di Hollywood, senza scomporsi) smettano di leggere, perché racconterò per filo e per segno come andò. La squadra era composta di quattro o cinque omaccioni, compreso ‘l’esecutore’.
Entrarono nel porcile, uno provvisto di una fune, un cappio con nodo scorsoio. Immobilizzarono il maiale per estrarlo dallo stabbiolo. Il maiale cominciò a urlare, urla fortissime prolungate, credetemi; quelle urla di un condannato a morte mi fecero venire la pelle d’oca, entrai in sintonia col maiale.
Scappai per il cortile correndo e urlando come la povera bestia, forse una forma liberatoria. Riuscirono a stenderlo e lo bloccarono, poi ‘l’esecutore’ impugnò il lungo coltello e con perizia lo affondò nel punto giusto… doveva recidere l’aorta… ero terrorizzato, ma rimasi inchiodato e registrai la scena in maniera indelebile.
Le urla dell’animale raggiunsero l’apice, il sangue sgorgò a fiotti, con la cadenza dei battiti del cuore… si stava dissanguando nel modo giusto, guai se non fosse successo, si sarebbe potuta perdere gran parte della carne e una famiglia avrebbe sofferto la fame.
Poi cominciò la vera festa
L’“incaricato” estrasse la lunga lama e il sangue sgorgò veloce sotto le pompate del cuore, le donne, rapide, coi tegami a raccoglierlo e portarlo in casa.
Le donne… uno spettacolo, credetemi. Tutto ruotava attorno a loro, badavano al fuoco, bollivano l’acqua, passavano gli attrezzi, silenziose, comprese nel loro lavoro, non sempre piacevole.
Al contrario, gli uomini, dall’alto dei loro pantaloni parlavano, ridevano, si sentivano i galli del pollaio. Non mi perdevo una battuta di tutto quel daffare. Ora la carcassa doveva essere lavata e rasata, le setole dovevano essere asportate senza incidere la cotica.
La lavorazione della carcassa
Ed ecco le donne rovesciare acqua bollente sulla carcassa, gli uomini, coi coltelli impugnati a spatola, rasare alla perfezione. Poi la carcassa fu issata di nuovo in verticale, a testa in giù. Ancora tanta acqua bollente e la pulizia terminò.
Il passo successivo era cruciale, partendo dalla coda, l’animale doveva essere aperto fino alla testa. Occorreva maestria, i visceri non dovevano essere toccati, guai tagliuzzare gli intestini, merce preziosa per gli insaccati, poi tutto il resto. Ed ecco le donne, sempre loro, raccogliere gli intestini e lavarli accuratamente, vuotarli e rilavarli. Le loro mani erano rosse dal freddo e dall’acqua bollente, ma non un fiato… niente.
Toccava poi a tutto il resto, stomaco, polmoni, cuore e il buonissimo fegato, con la sua rete di grasso, una delizia ai ferri con cipolle. Vi era poi un organo che, in combutta coi rognoni (reni), si occupava dell’urina… la vescica. Veniva accuratamente lavata e gonfiata a bocca, chiusa e appesa ad asciugare. Dirò in seguito il suo uso.
Il “bendiddio”
Svuotata, la carcassa era pronta per essere squartata, a questo punto subentrava la bravura degli (scusate la crudezza della parola… “scarnatori”, ma è così che ancora oggi li chiamano). Il loro intervento consisteva nel tagliare con accuratezza i prosciutti, le spalle, i pezzi di pancetta.
Intanto, dentro e fuori casa le donne hanno un gran daffare, accendono il fuoco nel camino, a mezzogiorno si mangerà tutti assieme, ognuno si cuocerà quello che vuole, è veramente una festa, cosa toccherà al cane di casa? (il sottoscritto), con tutto quel bendidio, una braciolina di lonza ci scapperà. Ma ce n’è ancora…
La parte migliore di tutto quel trambusto, stava per arrivare: la bollitura dei ciccioli.
A quei tempi, la “bontà” del maiale, si definiva in base alla quantità di grasso che il poverino ti forniva, un vero e proprio voto, soprattutto per l’allevatore. I “norcini” tagliavano a cubetti il grasso puro, cubetti che poi venivano messi nel grande paiolo di rame.
I ciccioli
Il calore del rame scioglieva il grasso, si rimestava con una grande “ramìna” e alla fine, ciò che rimaneva, si scolava sempre con la ramìna e si deponeva in un vecchio lenzuolo. Due donne lo arrotolavano a mo’ di caramella e ulteriore grasso colava nel paiolo.
Cola… cola… sgocciola… ed ecco presentarsi un omaccione… brandisce uno strizzaciccioli, due robuste tavole di legno massello provviste di manici ed incernierate. L’omone mette fra le pale la caramella, stringe con tutta la forza che ha, un vero demonio, il grasso ricomincia a colare… poi più niente.
Si srotola la caramella, appare un ammasso di sfogliatelle brunastre, vengono salate e pepate leggermente… il miracolo è fatto… un sapore, un gusto inenarrabile per il palato e affini… una bomba atomica per il fegato. E quella enorme paiolata di grasso fuso? Tutta benzina per la casa.
Qui entra in ballo la “sora” vescica che, gonfiata era ad asciugare, ma di vesciche ne servivano tante e quindi si compravano dal macellaio. Le vesciche venivano riempite del grasso fuso, chiuse ermeticamente con uno spago e immerse in acqua fredda. Il grasso condensava ed ecco a voi lo… strutto di maiale. Le patate fritte o al forno… languide musiche di violini, pollastri o faraone al forno… fantasie di amplessi proibiti!!!
Gli insaccati
Ma il lavoro doveva proseguire: e gli insaccati? Qui le esperienze di secoli dovevano emergere e far sì che tutto andasse per il meglio. I norcini tagliavano i pezzi di carne magra e grassa e facevano dei tocchetti, si impastava tutto si aggiungeva sale e grani di pepe nero nelle dosi giuste, si amalgamava con vino e infine il test. Una polpetta si metteva sulla griglia e si assaggiava, se il boss annuiva come fa il somaro, si cominciava a insaccare. I salami, le salsicce, le coppe…
Sui tavolacci della casupola, i norcini stanno preparando gli impasti per i vari insaccati, si poteva decidere di non fare un insaccato a favore di altri. Nell’impasto del salame avevano schiacciato dell’aglio nel vino, le future merende sarebbero state pura poesia.
Le coppe volevano i chiodi di garofano, la coppa di testa, la più micidiale di tutti, veniva fatta con parti cartilaginee e organi che da soli difficilmente si sarebbero apprezzati, i panini di coppa di testa erano insuperabili.
Il grugno, la coda, gli zampetti e tutto ciò che era tendineo e cartilaginoso erano miei. Così come nel pollame, le vecchissime galline che finivano in pentola, mi dovevano riservare la cresta i piedi e il magone ovvero lo stomaco.
Piazzata la macchina da insacco, avendo lì vicino la bacinella con gli intestini, cominciavano a insaccare, veloci e sicuri. Si facevano le collane di salsicce, i salami normali, quelli gentili per i quali veniva usata la parte terminale del retto, grassa e spessa. Si legavano con il refe e quindi si dovevano appendere.
I razziatori
Qui, devo aprire una parentesi necessaria, perché entra in ballo un importante coprotagonista di tutta questa faccenda: il topo campagnolo e tutti i suoi parenti. Questo piccolo, simpaticissimo, furbissimo, briccone e ladro matricolato, doveva essere tenuto alla larga da tutta quella roba. Come?
Il T.C. ha dimostrato, nei secoli, di possedere delle risorse di furbizia e abilità non comuni. Se vuole un uovo, lo prende con tutte e quattro le zampette, si mette in schiena e i suoi compari lo trascinano per la coda Ti volevi fare lo zabaione? No, oggi no, se lo fa lui. La topa di casa gli dice: “Ho bisogno di un po’d’olio” … lui va e se lo trova, ci inzuppa la coda e lo porta a casa… Cosa non si fa per una femmina… si corrono rischi mortali, può sempre esserci in agguato il felino di casa e allora addio topa.
La grande festa
La “Festa del maiale” di solito durava un paio di giorni, giorni di lavoro ma anche di molta allegria e della consapevolezza che avevi una bella riserva di cibo per l’inverno. I prosciutti conciati e salati, le pancette, le coppe e tutti gli altri insaccati dovevano essere appesi ad asciugare.
Tutte le vecchie case avevano dei siti dedicati, serviva aerazione e soprattutto sicurezza, quella carne era preziosa, non si ammettevano sgarri, si poteva anche sparare per un furto di cibo. Uomini e Topi, questi erano gli antagonisti fin dalla notte dei tempi.
La storia dei topi riempie libri su libri, la loro propagazione; le malattie che diffondono è materia di studio attualissima e di alta valenza sociale ed economica. Il fucile era riservato ai topi a due zampe e questo è avvenuto più di una volta.
Per i nostri “Mice” (topi) non serviva che un po’ di accortezza per batterli in furbizia. Nelle nostre vecchie case avere come coinquilini due, tre famigliole di topolini campagnoli o arvicole o semplici topi comuni non era una tragedia, se diventavano sgarbati, si approntava la classica trappola o meglio, si sguinzagliava il felino.
I nostri gatti non erano molto grassi, perché dalla tavola cadeva molto poco e così si “adongiavano” (davano una mossa) con la caccia a Mickey Mouse. Erano dei killer spietati, non ne scappava uno: bruttissima bestia la fame.
Stagionatura degli insaccati
Quindi, come difendere salami e compagni? Si usavano delle pertiche di legno ovviamente, queste venivano appese orizzontalmente a una certa distanza dal soffitto della stanza, tramite fili di ferro e chiodi conficcati nei travetti del soffitto stesso. Questo ambaradan rimaneva lì per sempre, perché serviva solo a quello. Tutta la popolazione di insaccati e tutto il resto veniva appesa alle stanghe (pertiche) e vi rimaneva per tutto il periodo dell’asciugatura e anche dopo.
Ma vi era un punto di debolezza, il filo di ferro che collegava il soffitto alla stanga. Era quasi certo che il bastardello sarebbe arrivato al filo di ferro, scivolato giù sulla stanga e lì avrebbe commesso un orrendo delitto.
Ma Mickey (il topo) non sa che il suo coinquilino, l’uomo è, non solo la bestia più perfida, ma anche la più furba del pianeta. Il Nostro roditore con abilità arriva al filo di ferro, i suoi recettori dell’olfatto, che superano di parecchio quello umano, gli provocano una specie di frenesia, non si trattiene dal battere i denti, lacrima di gioia, quando: “aaaagh! e questo cos’è?”
Una superficie liscia e bianca lo aspetta… si appoggia… “cacchio come scivola”, si lascia… zzzzzgggghhhheeee, il cuore gli esce dal petto…ahhhhhh punfete!!! sul pavimento.
La bestia umana ha dotato il suo ambaradan di un paratopi. Ha utilizzato un vecchio piatto, gli ha praticato un forellino al centro, lo ha infilato nel filo di ferro a bocca in giù. Poca spesa molta resa… o, al contrario.”
A conclusione di questo vivo racconto di Alberto, va precisato che: la macellazione attualmente segue norme sanitarie indiscutibili per tutelare sia i consumatori sia il benessere (per quanto possibile) degli animali. In Italia è permessa per consumi familiari solo per i suini, ovini, caprini, conigli e specie varie da cortile.
Si è temuto anzi, per un certo periodo, che con l’avvento dell’industria agroalimentare che tende a omologare tutto in fette conservate in efficienti confezioni di plastica, venisse meno una consistente parte di ritualità legata alla tradizione, che continua nelle nostre campagne.