La mia passione per la terra è antica, quasi primitiva, è nata nella mia infanzia, durante le vacanze estive trascorse in un paesino minuscolo in collina, affacciato sul lago di Lecco, poco fuori da un accrocco di casette di ardesia e muratura, in una casa colonica, completamente immersa nel verde.
Avevo sei anni circa e mi rivedo bambina felice, tra peschi, albicocchi, qualche filare di vite con l’uva per Giuliano, il contadino che si prendeva cura dell’orto e del frutteto. Il piacere di correre da un albero all’altro, staccare dai rami più bassi i frutti maturi e profumati, tuffare la faccia nel grosso cespuglio di rosmarino, cresciuto a ridosso del muro più assolato della casa, per godere di tutto il suo profumo e con una mano sfiorare intanto le dalie dalle corolle screziate che fiorivano lì accanto, mi regalavano sensazioni di gioia assoluta.
La giornata si concludeva nella stalla odorosa di letame, erba e fieno, per la mungitura delle due mucche, dove io arrivavo con il mio “brentalin del lacc” il pentolino del latte, che veniva riempito fino all’orlo come ricompensa.
Quando era tempo di raccogliere le patate, Giuliano mi chiamava con un fischio, io correvo a rotta di collo per le scale, lui mi metteva in mano un secchio e mi diceva: “ven scià” vieni qui e insieme andavamo in uno degli appezzamenti tra le viti. Mi levavo svelta i sandali, facevo passare qualche secondo e poi, di scatto, affondavo i piedi, muovendo tutte le dita, nella terra calda e soffice e cominciavo il mio lavoro, soddisfatta di quanto riuscivo a trovare.
I divertimenti e le scoperte non finivano mai. La ricerca delle uova sparse per il prato, disseminate dalla gallina faraona che passeggiava becchettando qua e là, noncurante delle grida da pellerossa lanciate da me e da mia sorella quando ne avvistavamo uno, era meglio del tesoro dei pirati; la raccolta delle verdure, calde di sole e coi colori dell’estate, sotto la guida esperta dell’immancabile Giuliano, al quale devo le mie prime conoscenze di agricoltura spicciola.
In quel piccolo Eden, la “green revolution” impiegata in quegli anni per dare impulso alla produzione agricola, soprattutto nei paesi sottosviluppati, con tutto il suo corredo di tecnologie negative come pesticidi, diserbanti, concimi chimici di sintesi e tanto altro, era sconosciuta. L’unico concime utilizzato era il letame delle vacche e il compostaggio dei rifiuti organici, fatta eccezione per il verderame spruzzato sulle viti per scongiurare la Peronospora.
Quando era il “giorno”, dopo le raccomandazioni di rito dei genitori, perché quella sostanza era velenosa, appena il contadino indossava la pompa a spalla col nebulizzatore, partiva la processione: lui capofila e dietro, a distanza di sicurezza, mio fratello, io e mia sorella, in quest’ordine; era una specie di rito al quale non saremmo mai mancati: ci affascinava lo sbuffo della macchina, la mano sapiente di Giuliano che dirigeva il getto, una nuvola azzurrina-verde che appannava grappoli e foglie, a noi sembrava una specie di magia.
Nel tempo, questa mia passione per la natura è passata per la via della conoscenza e ha assunto contorni più razionali. In particolare ho scelto di dedicarmi al ruolo degli alimenti nella nostra vita quotidiana e alla loro produzione che non deve sovvertire i delicati equilibri del nostro pianeta. L’uomo ha creato danni e disastri ambientali che sono sotto gli occhi di tutti, ma i mezzi per contrastare questo scempio esistono e sono convinta che si debba cominciare proprio da un uso responsabile dell’agricoltura che consenta metodi che preservino la fertilità, l’ambiente e il territorio per un cibo pulito e sano e che garantisca al produttore agricolo una giusta economia aziendale.
Photo by Ales Krivec